Al crepuscolo di una fredda sera d’inverno lasciamo alle nostre spalle
il brulichio luminoso della città per inerpicarci sulle pendici del Monte Boglia, fino al piccolo borgo di Cadro.
Attraverso il labirintico nucleo storico, nella penombra del suo reticolo di viuzze, giungiamo di fronte a un’antica casa ticinese. All’ultimo piano, in cima a una stretta scala in pietra, si apre una piccola mansarda illuminata da una luce soffusa. Appena entrati l’occhio viene richiamato dal bagliore della finestra aperta: fuori si stagliano le montagne, il tramonto e un tappeto di tetti. Un rifugio sicuro, un nido protetto, lontano e, insieme, strettamente connesso al resto del mondo: così si presenta all’ospite la casa di Andrea Bignasca, giovane musicista e cantautore, cresciuto in Ticino (sia dal punto di vista anagrafico che dal punto di vista musicale) e oggi proiettato sui maggiori palcoscenici svizzeri ed europei. «Negli scorsi anni la mia musica mi ha fatto girare parecchio, mi ha portato a incontrare gente nuova e conoscere nuovi luoghi, e, contemporaneamente, giorno dopo giorno, mi ha fatto scoprire l’importanza di avere una ‘tana’, un punto fermo a cui fare ritorno dopo ogni vagabondaggio». Ed è proprio qui, in questa mansarda dalle forme irregolari, incorniciata dalle travi in legno del sottotetto, che sei anni fa il musicista e la sua compagna hanno trovato lo spazio che stavano cercando.

Una mansarda che l’artista condivide con la sua compagna, un rifugio sicuro
per i periodi che separano un concerto in Ticino da un tour in Germania.
«Per raccontare la storia di questa casa bisogna fare un salto indietro nel tempo, e ‘in là’ sulla carta geografica, fino ad arrivare a Zurigo e all’autunno del 2012». Con un Bachelor in Lettere quasi concluso, Andrea sentiva di non aver ancora trovato la propria strada. «Mi terrorizzava l’idea di mollare gli studi, una carriera tradizionale, un lavoro fisso eight-to-five, e allo stesso tempo avevo l’assoluta certezza che non avrei potuto essere felice seguendo quella strada. Ad un certo punto sono esploso: ho deciso di essere onesto con me stesso e con chi mi stava vicino, e ho fatto una scelta di rottura, che – ne ero certo – avrebbe scioccato il mio entourage familiare: era deciso, avrei lasciato gli studi per dedicare tutto me stesso alla musica. Poco dopo ho scoperto che, in realtà, lo shock era stato più mio che loro: i miei cari già se lo aspettavano, e mi hanno dato pieno supporto in questa decisione».

tra il soffitto in legno arricchito da dettagli vintage e la galleria di tributi alla storia del rock.
Di ritorno in Ticino
Dopo sei lunghi anni ‘zurighesi’, Andrea si prepara quindi a fare ritorno nella sua terra natale, il Ticino, per iniziare un nuovo, entusiasmante capitolo della sua vita. Qui, posto di fronte alla necessità di scegliere un luogo dove allestire, insieme alla compagna Virginia, la sua prima vera casa ‘da adulto’, sente rinascere in sé il legame con il mondo della sua infanzia. «Sono nato e cresciuto a Sonvico, dove tutt’ora abitano i miei genitori. Sono affezionato a questa parte del Luganese, e mi piaceva l’idea di restare in zona. Così, abbiamo scelto Cadro: appena entrati in questo appartamento abbiamo capito che doveva essere lui». Le dimensioni ridotte degli spazi, la morfologia irregolare delle pareti («che con questo alternarsi apparentemente inspiegabile di rientranze e protuberanze, tipico di tutte le case antiche, sembrano quasi volerti raccontare delle storie») e dei soffitti, a tratti bassi e spioventi, a tratti altissimi, non ha scoraggiato la coppia – e, anzi, è stato uno degli elementi che più ha affascinato il musicista.
Una passione ereditata
«Sono particolarmente bravo a ‘far di uno spazio la mia casa’», racconta Andrea con un sorriso. «Il luogo in cui abito – che sia casa dei miei genitori, la WG di Zurigo con i miei amici, questa mansarda o le case che verranno in futuro – ricopre un ruolo piuttosto importante nella mia vita: non sono il kind of guy da dormi e mangi a casa e per il resto sempre fuori a far festa – come forse ci si potrebbe aspettare da un rocker scapigliato… Ho sempre sentito la necessità di vivere la dimensione domestica, di avere uno spazio da sentire mio. Per questo motivo, forse, mi incuriosiscono così tanto l’architettura e l’arredamento: mi affascina l’idea di poter trasformare degli spazi anonimi in ambienti accoglienti e personali, cimentandomi nella costruzione di pezzi d’arredo curiosi – e infatti, anche qui, nonostante il poco spazio, sono riuscito a inventarmi qualcosa!» racconta il musicista di fronte alla libreria costruita interamente da lui e Virginia.
Una passione, quella per la trasformazione degli spazi, che risale all’infanzia. «È stata sicuramente mia madre a trasmettermi questo desiderio di modificare, rivoluzionare e ricreare la nostra casa: quando ero un bambino ci divertivamo a spostare continuamente la posizione dei mobili del salotto, fino a esasperare mio padre» ricorda il musicista sorridendo.

nucleo della vita domestica della coppia.
Reciproco adattamento
«Devo ammettere che anche qui, nel corso dei sei anni che mi hanno visto abitare questi locali, spesso mi sono ritrovato con ‘le mani che prudevano’: avrei voluto spostare, cambiare, trasformare, riorganizzare… ma ho dovuto trattenermi». La particolare conformazione di casa Bignasca è infatti intervenuta ad addomesticare il desiderio di cambiamento del proprio inquilino, imponendogli dei limiti spaziali ben precisi, e spingendolo gradualmente a trovare un punto d’incontro con essa. «È forse proprio questa caratteristica della casa ad avermi così intrigato, questo suo concedersi a noi, ma mai del tutto. Un po’ come chi ascolta la mia musica, l’assapora, ma non ne è un fan sfegatato».
Da questo processo di mutuo adattamento fra proprietario e spazio abitativo, è nato quello che oggi potremmo definire, con un termine caro al cantautore, un accattivante mishmash di stili diversi. Un po’ come nella chiacchierata con Andrea Bignasca – condotta in un italiano continuamente increspato da vocaboli inglesi, modulato dallo stile colto di un ex studente di lettere, che a tratti si apre a locuzioni colloquiali inequivocabilmente nostrane – il sapore rustico di un edificio storico (i cui tratti originali sono valorizzati dall’attento lavoro di ristrutturazione) dialoga con uno stile d’arredo contemporaneo dai toni industrial e vagamente nordici, con una collezione di oggetti che rispecchiano l’animo rock del padrone di casa, con una gamma di elementi eterogenei riconducibili alla sfera degli affetti (primo fra tutti, la «Wall Of Sweetness, la parete della dolcezza, popolata di foto, biglietti, post-it e cartoline di chi ci è caro»). Un “miscuglio calibrato”, un ambiente accogliente e intimo, in cui «sentirsi a casa».
Un sedentario vagabondo:
due vite per un solo artista
Se la sensazione di appartenere al proprio spazio abitativo è essenziale per la maggior parte delle persone, per chi, come un artista, è costretto a instaurare un rapporto ‘intermittente’ con la casa, essa diviene un’esigenza pressante. «È molto difficile descrivere la mia maniera di vivere la casa nel quotidiano, proprio perché manca una costante. Da quando ho deciso di diventare un cantante per professione, la mia vita si è divisa in due: accanto ai lunghi periodi che io chiamo ‘di vagabondaggio’, in cui per settimane sono in giro fra un concerto e l’altro, si collocano dei momenti di profonda – anzi, profondissima – sedentarietà, in cui vengo praticamente fagocitato dal mio divano» racconta Andrea Bignasca sorridendo.
Due condizioni esistenziali molto diverse, due modi di vivere la quotidianità praticamente opposti, che scaturiscono dal precoce desiderio del cantautore «di non essere esclusivamente un ‘profeta in patria’. Il Ticino è la mia casa, la mia famiglia, le mie radici, e gli sono profondamente grato per quanto buono sia stato ai miei esordi, e per quanto caloroso sia oggi nel sostenermi. Ma, allo stesso tempo, non mi piace l’idea di ‘inflazionarmi’ troppo qui, preferisco scegliere due o tre date davvero speciali, e il resto dei concerti farlo altrove».
Seguendo questa linea, Andrea programma la maggior parte dei suoi concerti fra Svizzera interna, Germania, Austria e addirittura Stati Uniti, dove è approdato per la prima volta nel 2018 con il suo ormai celebre Murder. «Scegliere di suonare ‘fuori porta’ porta con sé l’incertezza di non sapere come reagirà un pubblico che ancora non conosci, ma allo stesso tempo, proprio in virtù di questa reciproca ‘estraneità’, ti dà un senso di profonda libertà». Una sensazione che fa apprezzare al cantautore la condizione di pellegrino «con il furgone carico di strumenti, sempre pronto alla partenza», e che va, però, attentamente dosata. «In passato mi è capitato di tenere sette concerti in dieci giorni, e di dovermi poi fiondare in studio di registrazione per preparare il nuovo album… settimane (anzi, mesi!) emozionanti, senza dubbio, ma alla fine, però, non vedevo l’ora di ritrovare il sapore di casa».
Il sapore di casa,
fra appartamento e locale prove
Terminati i tour e smesse le vesti ‘da palcoscenico’, Andrea Bignasca continua ad essere un rocker, ma nella calma di casa sua. «Se il vagabondaggio è dedicato alla promozione, i mesi trascorsi qui, fra l’appartamento e il locale prove, sono quelli della produzione. Tornare significa ritrovare i miei spazi, il mio silenzio, la mia (per quanto decisamente meno glamour) routine, fatta di sigarette, caffè e cene con Viriginia, l’unico punto fermo in giornate dai contorni labili e indefiniti».
Ritrovarsi, ritrovare la propria dimensione è il presupposto essenziale per rientrare in contatto con la propria creatività. «Vado a ondate: ci sono dei momenti di grandissimo entusiasmo, e altri meno produttivi, specialmente quando i periodi di sedentarietà si fanno troppo lunghi. Arriva sempre, però, quel momento in cui, quasi per rispetto nei confronti della mia musica, mi rimetto all’opera. Un ruolo decisivo, allora, lo gioca sicuramente il mio locale prove, nel seminterrato di casa dei miei».

uno degli oggetti a cui Andrea è più legato.
Tappeti persiani, pareti dai colori intensi, mobili d’antiquariato, atmosfera hipster e tonnellate di preziosi cimeli di ogni sorta («tutti quelli che a casa non riescono a trovare posto!»), inequivocabilmente legati al mondo della musica e alla storia del rock, con Bruce Springsteen a farla da padrone: il locale prove è la vera e propria seconda casa di Andrea Bignasca. «Ogni volta che devo provare un pezzo, che devo capire se l’idea che ho avuto può davvero diventare una canzone, vengo qui e ci rimango per ore. Questa è però solo metà del mio lavoro: se è vero che questo locale è una sorta di seconda casa, è vero anche che casa mia è un luogo di lavoro, lo spazio in cui tutti gli ‘embrioni’ dei miei pezzi hanno visto la luce per la prima volta».
Emerge qui chiaramente una profonda fusione fra vita professionale e vita privata (il cui comune denominatore è, sempre e comunque, la musica), e la natura ibrida e multiforme dell’abitazione del musicista: uno spazio capace di accogliere la riflessione, la sperimentazione e la messa in musica delle idee che daranno vita a un nuovo brano, e, insieme, quanto più tradizionalmente ci si aspetterebbe di trovare al suo interno: il calore degli affetti.
Simbolo di questo binomio sono gli oggetti scelti dal musicista per raccontarsi: «non è facile scindere l’Andrea-musicista dall’Andrea-e-basta, forse proprio perché io e la musica siamo una cosa sola… dovendo mostrare un oggetto che mi rappresenti al di fuori della mia carriera scelgo le sedie-comodino in legno intagliate da mio nonno, una delle figure più importanti della mia vita. Per la sfera musicale, invece, la risposta è ovvia: la mia chitarra – a casa non può mai mancare!».

Immerso in quel ‘non-luogo’
che è la musica
Ed è con la chitarra in grembo, con le dita che si muovono sicure sulle corde e la voce che dipinge, in un inglese che, pronunciato da lui, ha il sapore di una lingua universale, un esperanto capace di annullare qualsiasi barriera linguistico-culturale, che Andrea si immerge nella sua musica. «Più che in uno ‘spazio altro’, quando mi dedico alla creazione di un nuovo brano mi sembra di trovarmi in un non-luogo, in una dimensione in cui il tempo smette di scorrere e tutto quanto sta intorno a me cessa di avere un’importanza particolare. Un annullamento completo, forse legato al fatto che per me la musica è qualcosa che viene da dentro, e non da stimoli esterni». “Uccidere le cose che uccidono”, come recitava il commento al suo ultimo album, scovare i propri demoni, immergersi in un processo introspettivo, di profonda ricerca interiore. «Per me scrivere canzoni è un’esigenza. Ne è prova il fatto che continuerei a farlo anche se smettesse di essere la mia professione. Detto ciò, so bene che ad ascoltarle non ci sarò solo io, ma tutto il resto del mio pubblico, e che ciò che dentro di me è astratto, informe e nebuloso, necessiterà di essere tradotto, chiarito, e portato alla luce».
Un lungo processo, quello che caratterizza il germogliare di ogni canzone, che richiede un Andrea ‘diverso’ in ciascuna delle fasi e dei contesti architettonici che lo ospitano: un mormorio sommesso, quasi un sussurro, per i versi che nascono sul divano di casa; un suonare deciso e un cantare graffiante nel locale prove, in cui «spingere al massimo» per capire se il brano ‘s’ha da fare’; un’esecuzione attenta nello studio di registrazione; un ascolto critico a freddo del pezzo appena inciso, da farsi «rigorosamente in macchina, come mi ha insegnato mio padre»; un entusiasmo sfrenato nelle serate d’estate, all’aperto, circondati solo da una piazza, «in cui la vibe con il pubblico è talmente positiva da farti desiderare che non arrivi mai l’ora di spegnere il microfono… Ogni luogo determina un particolare modo di fare musica, di suonarla, di viverla».
Un futuro dolcemente nebuloso
Con la consapevolezza che ogni luogo genererà la sua musica, e che ovunque andrà ad attenderlo non ci sarà mai il silenzio, Andrea è serenamente aperto a quanto il futuro ha da offrigli. «Qui, nella nostra ‘tana’ di Cadro, stiamo bene, ci sentiamo a casa. Ma questo non significa che altri lunghi, in futuro, non potranno diventarlo… diciamo piuttosto che, probabilmente, questa sarà una tappa del nostro vagabondaggio» racconta il cantautore. «Il mio futuro al momento è nebuloso, e mi piace che sia così: un po’ come quando compongo una canzone, partendo dalle note, senza sapere ancora quale sarà l’arrangiamento finale: mi lascio sorprendere dalle parole che sorgeranno spontanee, dentro di me, in accordo con la melodia».
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